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On Morton Feldman's "Flute and Orchestra"

di Veniero Rizzardi

La musica di Morton Feldman viene generalmente identificata in poche, singolari, caratteristiche: attenzione al suono in sé piuttosto che alle relazioni dei suoni tra loro, dunque apparente sconnessione formale dei singoli eventi e svolgimenti rallentati; dinamiche comprese tra il piano e l'appena udibile; e, nelle opere degli anni Ottanta, semplici moduli minimamente variati lungo decorsi temporali smisurati. Tutto ciò, benché si possa riscontrare facilmente in gran parte della produzione di Feldman, delimita appena un ambiente in cui convivono stili molto differenti - nient'altro che l'"oscurità" cui l'orecchio, come suggeriva Cornelius Cardew, deve prima abituarsi per distinguere gli oggetti che vi sono immersi. La musica di Feldman si riconosce immediatamente, certo, ma è anche vero che questa consiste in 154 lavori composti in un arco di quarant'anni (tra il 1947 e il 1987), i quali illustrano approcci diversi a un fondamentale problema: conciliare l'ideale di un'oggettività assoluta dei suoni con l'esigenza di organizzarne la successione nel tempo, fino a forme di tipo narrativo.

Ai suoi esordi, negli anni '50, Feldman dedicò soprattutto al pianoforte e a piccole formazioni da camera brevi componimenti di carattere informale, molto lontani dalla complessità di relazioni messa in atto tanto dalla musica seriale quanto dalla disciplina delle operazioni casuali praticata da John Cage, di cui veniva invece assunta la fondamentale esigenza, appunto, di "liberare" i suoni da ogni retorica preesistente e da strutture sovraordinate al suono stesso. Per quanto convinto dell'assoluta autonomia e specificità dei propri mezzi, Feldman cercava di riprodurre nella composizione musicale l'immediatezza e la fisicità nell'approccio alla materia che aveva avvertito nella musica di Varèse, ma che scorgeva pienamente dispiegate nella nuova pittura americana del cosiddetto "espressionismo astratto": la gestualità congelata di De Kooning e di Kline, i meticolosi sgocciolamenti di Pollock, le calme superfici di Rothko erano esempi di possibilità mai prima praticate nella musica.

Fin dall'inizio vi sono molte promettenti ambiguità nella poetica di Feldman: fondamentale quella che la fa oscillare tra l'ideale di musica pura, e la necessità di realizzarla attraverso una contaminazione di categorie fondative, di essere, come recita il titolo di un articolo famoso, between categories, "tra tempo e spazio. Tra pittura e musica. Tra costruzione della musica e la sua superficie". (1)

Comporre i suoni in una successione consequenziale diviene così meno interessante che "disporli sulla tela del tempo". E ancora: una musica dichiaratamente nata dall'"esperienza astratta", è in realtà intessuta, disseminata di presenze eterogenee. Una tela di Rauschenberg, del tutto bianca, vuota, disponibile a raccogliere qualunque ombra o riflesso, aveva suggerito a Cage una delle sue opere estreme, 4'33" di silenzio o, meglio, di qualunque suono occasionale vi si depositasse sopra. Anche per Feldman una tela di Rauschenberg aveva prodotto l'illuminazione - questa volta una tela nera, con un foglio di giornale incorporato, dipinto anch'esso di nero, gli aveva insegnato, praticamente, la libertà nell'assimilazione di materiali diversi ma soprattutto un diverso senso dell'opera, ossia non l'alternativa secca "tra l'arte e la vita, ma una via di mezzo". Di qui la possibilità sempre aperta dell'affioramento inatteso di elementi figurali, che possono persino assumere l'aspetto di aneddoti (si ricorda, per tutti, nella musica impassibile di For Frank O'Hara, un solo, brevissimo gesto, il lacerante rullo fff di tamburo che prova a narrare l'attimo irreparabile della morte).

"Quindici anni fa (…) provavo a includere nel mio lavoro qualcosa che avrebbe potuto gettare un'ombra su di esso. Ricordo che scrissi persino un pezzo cercando di catturare la periodocità del rumore dei pneumatici sulla strada, nella pioggia. Ma era tutto sempre distante, era ai margini esterni, per così dire, del pezzo. Adesso l'obiettivo è un altro. Io mi sento al di sopra di tutte quelle cose che in passato trovavo inestetiche. Anche adesso le trovo inestetiche, ma ci sono sopra. Ho compiuto un percorso. Però non voglio fare il salto - dovunque questo salto mi porti - verso una situazione come quella in cui mi sono trovato una volta in macchina con Larry Rivers, passando davanti a un mucchio di immondizie, e lui ha detto 'guarda, lì sulla sinistra, un pompelmo gli darebbe un bel colore'". (2)
All'inizio degli anni '70 Feldman è un compositore affermato su tutt'e due le sponde dell'oceano: le occasioni di scrivere per organici più ampi dei consueti si moltiplicano, ma non è soltanto questa la ragione per cui si acuisce l'interesse per i colori della grande orchestra e in particolare per il formato concertante: sono infatti otto i "concerti" scritti tra il 1971 e il 1979, che occupano una fase del tutto nuova nella sua produzione. Queste opere, alle cui titolazioni (Cello and Orchestra, Piano and Orchestra ecc.) Feldman associava il carattere di "natura morta", esprimono il tentativo di andare oltre l'intento di "sostenere una superficie con un minimo di contrasto" in favore dell' esperimento di un nuovo modo di dipingere sulla "tela del tempo": a partire da un linguaggio non figurale Feldman cerca di sviluppare una possibile dialettica di figura e sfondo. I risultati sono molto differenti tra loro e, al termine di un percorso che si snoda attraverso The viola in my life IV (1971), i concerti per violoncello (1972), per quartetto d'archi (1973), pianoforte (1975), oboe (1976) e l'"opera" Neither (per voce sola e orchestra, da Beckett, 1977) è proprio nel concerto per flauto che si affacciano le nuove soluzioni di stile che diverranno la cifra dominante dell'ultimo Feldman.

Già Piano, di poco precedente a Flute and Orchestra, il pezzo più esteso (circa venticinque minuti) che Feldman avesse fin lì dedicato allo strumento prediletto, presentava diverse caratteristiche nuove e notevoli: le occasionali iterazioni, o insistenze, già comparse nei brani degli anni Cinquanta, interessavano ora delle embrionali figure, sagome sbalzate in un processo sostanzialmente informale. La notazione - problema sempre approssimato della rappresentazione adeguata di un tempo avulso da un qualunque ritmo apparente - si snodava ora in una complessa alternanza di moduli metrici e nel frequente uso di suddivisioni "irrazionali".

Questa griglia metrica comincia ad assumere piena funzionalità rispetto al principio della ripetizione (sottilmente) variata che di lì a poco diverrà esclusivo. Nelle composizioni posteriori al 1979 (da Why Patterns? in avanti) la griglia viene sistematicamente attraversata, per così dire, da un materiale fatto di oggetti sonori, come un semplice intervallo fissato in un determinato registro oppure un breve motivo-figura più profilato. Questo materiale, che si afferma fin dall'inizio del pezzo come caratteristico, in apparenza non muta mai come tale; i processi di variazione cui va incontro riguardano alterazioni nelle durate tali da non confonderne mai l'identità. Sembrerebbe piuttosto di ascoltare un processo in cui lo sviluppo vero e proprio interessa la griglia metrica sottostante. La misura di battuta non indica più una scansione temporale regolare, la stessa direzionalità del tempo non ha più nulla di ovvio. Poiché un processo del genere ha senso soltanto su scale temporali molto ampie, la sua durata complessiva (fino a cinque ore, come in For Christian Wolff) finirà per modificare oggettivamente le condizioni psicologiche dell'ascolto: difficile stabilire, infine, se sarà stata "variata" la sensazione soggettiva piuttosto che il materiale musicale.

Flute and Orchestra è, si potrebbe dire, sul punto di svolta che conduce a questi sviluppi. Il principio dell'oggetto sonoro lievemente alterato si afferma qui come un catalogo di possibilità. I processi ripetitivi sono la regola, ma non occupano mai, con una sola eccezione, più di una-due pagine, e lasciano il posto a nuove figure immesse in nuovi processi ripetitivi, dando luogo ad una concatenazione di pannelli in sé relativamente statici. Si può dire che questa soluzione formale segni la transizione dai modelli propriamente pittorici alla similitudine con l'arte tradizionale del tappeto, cui Feldman cominciava a riferirsi in quegli anni, significando che il materiale iniziava a strutturarsi in moduli, o patterns, organizzati in maniera non meccanica o deduttiva (questa è la differenza sostanziale con il minimalismo) ma idiomatica e intuitiva. Il principio dell'esperienza astratta e della tendenziale identità di materiale e forma non veniva dunque meno.

In Flute and Orchestra il reciproco contrastarsi dei pannelli crea un primo livello di 'sviluppo', poiché ognuno di essi pone il solo in una differente prospettiva rispetto all'orchestra, giocando spesso sullo scambio di ruoli tra figura e sfondo, in ciò sfruttando l'orchestra per creare soprattutto macchie, grumi di colore raramente amalgamate in un "tutti". Pur se l'immagine è ovvia, per questo lavoro è specialmente appropriato parlare dell'orchestra come di tavolozza: quando al solista si accompagna uno sfondo questo è formato di volta in volta da un gruppo strumentale isolato, ad esempio di 3 clarinetti, 3 timpani, 3 glockenspiel, arpa e celesta; oppure di 3 glockenspiel, 3 tamtam e flauto in orchestra (non "in eco" ma con un tremolo che lo assimila alle percussioni); oppure ancora dei suoni armonici dell'intera sezione dei contrabbassi; mentre l'unica possibile "cadenza" si appoggia al fruscio del tamtam.

Un ulteriore livello di contrasto tra i "pannelli" formali è dato dai due fondamentali ruoli assegnati al solista. Al flauto vengono affidate sequenze di note isolate le cui durate corrispondono a comodi respiri oppure vere e proprie sequenze melismatiche - procedimento questo piuttosto raro in Feldman, ma che corrisponde perfettamente ai principi della sua scrittura strumentale, rigorosamente idiomatica, e del tutto anti-sperimentale, che non forza mai le caratteristiche sonore degli strumenti, l'estensione, l'azione meccanica oltre i limiti dell'uso codificato.

Ma è propriamente nel gioco illusionistico dello scambio tra ciò che è statico e ciò che è mobile che si esercita l'abilità di orchestratore di Feldman. Ad esempio, già alla prima pagina si assiste, nella parte del solista, ad una successione di note singole distesa su una metrica in continua trasformazione (3/8, 3/4, 7/8, 2/4 ecc.) che non incontra mai la suddivisione dell'orchestra, uniformemente notata in 5/16, con i 3 glockenspiel in 3/4 a stendere in modo indipendente un tappeto di tremoli. A battuta 10, con un subitaneo, isolato sfffz (la dinamica prevalente è come sempre nell'ambito del piano) si presenta un gruppo di legni e ottoni gravi che incrina la "superficie" da poco affermatasi, e introduce un inatteso elemento umoristico (l'umorismo di Feldman sarebbe, da solo, una scuola di composizione) destinato a svilupparsi in un ruolo di movimento, a volte di disturbo, ma comunque narrativo, in netto contrasto con gli altri ruoli strumentali. Caratteristico, a batt. 290, il venire in primo piano di questo gruppo con un vero e proprio ostinato ritmico di settimine e quintine alternate in una segnatura, rispettivamente di 6/16+4/16 - anche in questo caso un oggetto alieno, un materiale umoristico che irrompe e scompare creando l'impressione di un mistero o di un nonsense. Le fila di questo accumulo di colori e di gesti sembrano raccogliersi in una lunga sezione uniforme, una drammatica perorazione del flauto, accompagnato da tutta l'orchestra con il gruppo dei fiati gravi, ancora, a replicare insistentemente il gesto iniziale. Ma si tratta di un falso punto culminante che, terminato, lascia il posto al quieto scorrimento degli eventi che precedeva, come se nulla fosse successo, fino alla rarefazione conclusiva di un trio composto da solista, violoncello e corno inglese.

Non è da escludere che un impiego così peculiare del flauto solo, dei fiati e delle percussioni sia collegato alla dedica a Edgar Varèse ma, naturalmente, non si cerchino riferimenti letterali o citazioni nascoste.

Notes:
1.M. Feldman, "Zwischen den Kategorien (Between Categories)", in Essays, hrsg. von Walter Zimmermann, Kerpen, Beginner Press 1985, pp. 82-84.
2.M. Feldman, Conversazione radiofonica con John Cage del 9 luglio 1966, trascr. da L.Kuhn e pubblicata in M.Feldman, J. Cage, Radio Happenings, Köln, MusikTexte 1993, p. 21.

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